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30.05 - 12.10.2024

PROROGATA FINO AL 26 OTTOBRE  2024  | EXTENDED UNTIL OCTOBER 26, 2024

MILANO, CORSO MONFORTE 23

COMUNICATO STAMPA

| PRESS RELEASE

INVITO | INVITATION CARD

Sergio Risaliti

Galleria Christian Stein presenta la mostra di Luciano Fabro (Torino, 1936 – Milano, 2007) dal 30 maggio 2024. In mostra nella sede di corso Monforte opere storiche che tornano in esposizione dopo tre decenni: Il giorno mi pesa sulla notte II del 1994-96, AR del 1990 e Quid nihil nisi minus del 1969.

 

 

Arte è quell’attitudine all’interno dei fenomeni naturali sia fisici che spirituali che modifica il processo aumentandone la definizione; a seguito dell’atto artistico il fenomeno non sarà più definibile come per l’innanzi.

Luciano Fabro

 

 

La prima apparizione di Luciano Fabro alla galleria Stein rimonta al 1967, quando venne invitato in una collettiva a cui presero parte tra gli altri Boetti, Kounellis, Merz, Paolini, Twombly. L’ultima mostra personale è invece del 1999. Tra queste due date sono state molte le occasioni per ammirare le opere di Fabro negli spazi Stein, sia a Torino che Milano. Merita qui ricordare la grande retrospettiva del 2015 negli storici spazi della sede centrale di corso Monforte e nell’ampia sede periferica di Pero. Si tratta dunque di una lunga relazione, di una ribadita fedeltà, non tanto a spazi, quanto a persone, amici, colleghi, a una certa idea dell’arte e a una certa pratica artistica. Adesso Gianfranco Benedetti ha deciso di presentare tre opere secche nel ‘salotto buono’ di Corso Monforte: Quid nihil nisi minus, AR e Il giorno mi pesa sulla notte II. Luciano Fabro ne sarebbe soddisfatto e felice. I titoli sono sempre stati decisamente importanti nel suo mondo. In questo caso sembrano funzionare tra loro come in un rebus. Un modo di creare relazioni tra opere e titoli che all’artista piaceva molto. Fabro amava mettere lo spettatore nelle condizioni di far uso di immaginazione, di fare collegamenti tra immagini e parole. Era il suo modo di fare dell’ironia uno strumento dell’intelligenza, di eccitare la sensibilità più libera e curiosa, di attivare il gioco di associazioni tra realtà, forme e conoscenza diverse.

 

Quid nihil nisi minus, è un’opera del 1969, esposta la prima volta alla Galleria La Salita; anche in uno degli sketches del videotape inciso per la mostra Gennaio ’70 al Museo Civico di Bologna a cura di R. Barilli - M. Calvesi - T. Trini, Fabro sta in posizione obliqua in parallelo con un tavolo e tiene il dito teso gridando: ”Quid nihil misi minus?”. AR è del 1990, mentre Il Giorno mi pesa sulla notte II è datato 1996.

 

A R deriva dalla radice indoeuropea ar (muoversi, comportarsi in modo corretto), come il latino ars (arte, abilità, qualità, mestiere) e come la parola artus (membra, braccia), cioè il prolungamento articolato del corpo verso l’esterno; originariamente quindi anche la parola ars aveva un’accezione pratica, ossia la capacità di fare armonicamente. L’opera è composta da quattro teli in garza di cotone naturale intinta parzialmente nell’inchiostro, appesi in modo da dare forma alle due lettere. Il motivo in giallo e rosso sul tessuto riprende le macchie di Rorschach, immagini speculari il cui significato è l’interpretazione stessa, in cui tutto il senso dell’immagine si sposta quindi dalla rappresentazione alla percezione di ciò che vi è rappresentato. I teli con le macchie di Rorschach sono quelli esposti in occasione della mostra personale al PAC di Milano nel 1980. In quel caso i teli intrisi di colore distesi e appesi dal soffitto segnalavano la soglia di ingresso nei diversi Habitat allestiti.

 

Potremmo dire che Il giorno mi pesa sulla notte sia il risultato di Ar, cioè del rapporto tra arto e arte, tra il fatto di immaginare e portare alla luce attraverso il fare artistico. La frase incisa su una lastra di marmo, Quid nihil nisi minus, allude, altresì, alla morte dell’arte per assenza di fantasia e abilità manuale, un collasso provocato dal riduzionismo radicale e concettuale che tendendo al minimo, alla banalizzazione lineare del rapporto tra significato e significante, conduce al nulla. Un percorso opposto a quello di Fabro che sosteneva come l’artista porti le cose e la materia fuori dal nulla per assumere una forma artistica, aggiungendo bellezza e meraviglia alla tecnica. Per spiegare questa opposizione Fabro amava citare una frase di padre Florenskij secondo il quale: “l’opera d’arte come tale è una realtà che supera se stessa, vale a dire che ci dice e ci dà di più di quello che essa è direttamente attraverso la percezione dei sensi”. Un di più che è il quid misterioso dell’opera d’arte (quel non so che frutto della spezzatura), la cui verità consiste nell’essere tanto cosa quanto immagine, tanto oggetto quanto metafora.

 

Osserviamo il primo lavoro: Il giorno mi pesa sulla notte II. Il titolo ha qualcosa di poetico, risuona, lascia spazio all’immaginazione, non si chiude in senso auto-referenziale, e funziona anche in modo didattico e autobiografico perché nasce sicuramente da un’esperienza personale, da una sensazione provata in proprio. Il giorno mi pesa sulla notte II, è realizzato con tre blocchi di pietre diverse, di cui una chiara, un’onice, gli altri due scuri in marmo Nero Marquina. L’onice, a prima vista informe, sembra una scheggia, un macigno, come quelli lasciati a terra in una cava, un masso rotolato dalla montagna verso valle. In questo senso, quel blocco, mantiene tutto del suo essere naturale, appare per quello che è, una pietra molto pesante. Poco lavorata dalla mano dello scultore che vi accenna solo delle linee di panneggio. Più che di qualità dovremmo parlare di quantità, di peso, ingombro, gravità e staticità. Nell’insieme è un lavoro di scalpellini, eseguito senza troppi abbellimenti e grazie, terminato con la prima sbozzatura. Gli altri due pezzi di marmo scuro sono invece molto lavorati dalla mano dell’uomo che con fatica, tecnica, intelligenza e creatività li ha trasformati in una forma artificiale affidandogli poi il valore di immagine. Dei piccoli inserti di puntini bianchi e un titolo hanno fatto volare nell’immaginario poetico le due colonne. Ricordando ancora le parole di padre Florenskij, questi due pezzi di marmo nero sono due semplici cilindri, come due fusti di colonna, ben torniti, levigati, lucidati con raspa, spazzole e panni cerati, gesti lenti e carezze; hanno una superficie scura, nera come la notte, che copre bellamente la materia e ne alleggerisce il peso, lasciando sparire la natura di pietra sotto il velo della metafora.

A questo proposito sosteneva Fabro: “Se la pietra diventa fiore non contiamo che sia pietra, né che sia fiore, è altro: scultura”. Una qualità espressiva e poetica che è il valore aggiunto alla materia dall’intelligenza e fantasia dell’artista. Infatti si noti che le due facce alla base del fusto presentano una serie di scanalature circolari che servono a far apparire quel tronco di colonna come un foglio di carta arrotolato su se stesso, come fosse un manifesto. Se la colonna rotolasse, il foglio potrebbe stendersi sul piano del pavimento. I piccoli segni in bianco che punteggiano la superficie, fanno immediatamente pensare al cielo stellato, come un sottile velo ricamato di stelle lontane. Un’immagine, questa del manto stellato, partorita dai poeti che contemplavano il cielo a occhio nudo di notte. Il giorno, un blocco di pietra informe, pesa sulle due colonne, che sono la notte. I due cilindri sopportano il macigno pesante come una giornata girata male. “Queste opere -ha scritto Fabro- sono nate da un modo di osservare le relazioni che intercorrono fra cosmo e immagine, o fra disordine e immagine. Mi incuriosisce il fatto che l’immagine del cosmo sia inizialmente informe e prenda forma solo attraverso la conoscenza. Spesso ho definito lo stato d’animo di questa sensazione quotidiana “il giorno mi pesa sulla notte”. Parlando di giorno e notte in scultura, non può non venire alla mente la Sagrestia Nuova di Michelangelo, dove il grande scultore rinascimentale, ha realizzato le celebri tombe dei Medici. Due tra le sculture conservate in quello spazio, raffigurano nelle intenzioni dell’artista, il Giorno e la Notte, ad arricchire la tomba di Giuliano de’ Medici di pensieri sul sonno e il sogno, sullo scorrere del tempo e la morte.

Dicevamo che i tre titoli e le opere formano una sorta di rebus, un testo composto di immagini e parole. C’è qualcosa di presocratico in queste tre opere. Qualcosa di primordiale. L’atto artistico che nasce dal desiderio di arricchire il mondo di bellezza, per dare un senso alla vita e alla morte, per continuare a contemplare il cosmo, il cielo stellato di notte anche quando il giorno pesa sulle nostre teste come un macigno. Contro la morte per disarmonia o regressione, come amava ripetere Fabro.

 

Tornano allora a risuonare nella testa certe sue dichiarazioni. La sua intelligenza, la sua sensibilità e morale, la sua ironia e lirica attitudine, di cui avvertiamo oggi la mancanza.

Possano i suoi fecondi pensieri accompagnare oggi ancora una volta i visitatori, soprattutto i giovani, artisti e non.

 

“La mia certezza: il mio senso per la mia azione. Una nuova logica che sia del particolare e dia i mezzi allo sviluppo dello spirito umano nel mondo. Scoprire l’ordine delle cose, determinarne, invece che le essenze, ai fini di un’inerte contemplazione, le utili proprietà secondarie, i modi di azione, indurre le cause dagli effetti che si fan sentire. Acuire e sistemare a questo fine l’osservazione e la riflessione. Acuire gli strumenti dello spirito ed estendere col loro mezzo in nuovi strumenti, la potenza della mano, prolungare il proprio corpo in tutte le cose del mondo, come proprie membra obbedienti, imitando la natura, ma per trasformarla secondo le umane idee. Analizzarla invece di astrarne. Sostituire al caso inventore il metodo adeguato alla proficua riformatrice invenzione.

Assumersi questa impresa infinita.

Fare questo infinito, in cui l’uomo non si perderà, né vanamente si girerà. Scegliersi questa erculea via della virtuosa fatica, lasciare la facile, seducente, fiorita via, senza frutto d’opere, della contemplazione edificante, dagli sbocchi in altitudini buone solo agli amanti di precipitarsi nel nulla.”

 

Luciano Fabro, Parole e pensieri di Francesco Bacone, 1963

Sergio Risaliti

Christian Stein Gallery presents the exhibition of Luciano Fabro (Turin, 1936 – Milan, 2007) starting from May 30, 2024. The exhibition at the Corso Monforte venue will feature historical works that return to display after three decades: 'Il giorno mi pesa sulla notte II' from 1994-96, 'AR' from 1990, and 'Quid nihil nisi minus' from 1969.

 

Art is that inner aptitude of natural phenomena—both physical and natural—which alters the process, enhancing their definition: as a result of the artistic act, it will no longer be possible to define the phenomenon in the same way as before.

Luciano Fabro

 

Luciano Fabro’s first appearance at the Galleria Stein was back in 1967, when he was invited to take part in a joint exhibition along with Boetti, Kounellis, Merz, Paolini and Twombly, among others. His last solo exhibition there was in 1999. Between these two dates there were many opportunities to admire Fabro’s works in Stein’s spaces, in both Turin and Milan. It is worth recalling here the major retrospective of 2015 on the historic premises of the central gallery on Corso Monforte and on the more ample ones of the branch located outside the city, in Pero. So it has been a long relationship, one of a continually reaffirmed fidelity, not so much to the spaces themselves as to people, friends and colleagues, as well as to a certain idea of art and a certain kind of artistic practice. Now Gianfranco Benedetti has decided to present three works in the more “elegant” setting of the gallery on Corso Monforte: Quid nihil nisi minus, AR and Il giorno mi pesa sulla notte II. Luciano Fabro would have been happy, indeed delighted with the choice. Titles had always been of decisive importance in his world. In this case they appear to interact with each other as if in a rebus. A way of establishing relations between works and titles of which the artist would have approved. Fabro liked to put viewers in a position to make use of their imagination, to make connections between images and words. It was his way of turning irony into an instrument of intelligence, of arousing a freer and more curious sensibility, of activating the play of associations between different situations, forms and understandings.

 

Quid nihil nisi minus (Latin for “Nothing but Less”) is a work from 1969, shown for the first time at the Galleria La Salita. In one of the sketches of the videotape made for the exhibition Gennaio ’70 at the Museo Civico in Bologna curated by R. Barilli, M. Calvesi and T. Trini, Fabro is standing in an oblique position, parallel to a table, and holding up a finger while he shouts: ”Quid nihil nisi minus?” AR is from 1990, while Il giorno mi pesa sulla notte II dates from 1996.

 

A R derives from the Indo-European root ar (to move, to behave in a correct way), like the Latin words ars (art, skill, capacity, craft) and artus (member, limb), i.e. the articulated extension of the body toward the outside. So the word ars originally had a practical sense as well, that of the ability to do something in a harmonious way. The work is composed of four pieces of natural cotton gauze partially dyed with ink and hung up in such a way as to form the two letters. The motif in yellow and red on the fabric echoes a Rorschach blot, a specular image whose meaning lies in the interpretation itself, and thus it is one in which the whole sense of the image shifts from representation to the perception of what is represented. The canvases with Rorschach inkblots are the ones shown in his solo exhibition at the PAC in Milan in 1980. In that case the pieces of cloth steeped in dye and hung from the ceiling marked the entrance of the various habitats set up in the exhibition.

 

We could say that Il giorno mi pesa sulla notte is the result of ar, i.e. of the relationship between artus and art, between the act of imagining and the way it is brought to light through artistic practice. Likewise, the phrase engraved on a slab of marble, Quid nihil nisi minus, alludes to the death of art due to a lack of imagination and manual skill, a collapse brought about by a radical and conceptual reductionism that, by tending toward the minimum, toward the linear banalization of the relationship between signified and signifier, leads to nothing. The opposite of the approach taken by Fabro, who argued that the artist should be bringing things and material out of nothing so that they take on an artistic form, adding beauty and wonder to technique. To explain this opposition Fabro liked to quote the words of Father Florensky: “the work of art as such is a reality that surpasses itself, in other words that tells us and gives us more than what is directly available through the perception of the senses.” A more that is the mysterious quid of the work of art (that indefinable something which is the outcome of a breakage), whose truth lies in being as much thing as image, as much object as metaphor.

 

Let’s take a look at the first work: Il giorno mi pesa sulla notte II. As is always the case with Fabro, there is a poetic element to the title, which can be translated as “The Day Weighs on My Night.” It resonates, leaves room for the imagination, does not shut itself up in a self-referential sense and also functions in a didactic and autobiographical way because it undeniably stems from personal experience, from a sensation perceived at firsthand. Il giorno mi pesa sulla notte II is made up of three blocks of different kinds of stone, one of which, an onyx, is a pale color, while the other two are dark Nero Marquina marble. At first sight the pale block appears formless. It looks like a splinter, a rock, like the ones left lying on the ground in a quarry, or a boulder that has rolled down the mountainside. In this sense, the block maintains all of its natural thingness. It appears to be what it is, a very heavy rock. Little worked by the sculptor’s hand, which has just hinted at lines of drapery. Rather than of quality we should speak of quantity, of weight and bulk, of gravity and immobility. Overall, it is the work of a stonecutter, executed without much embellishment and grace, no more than rough-hewn. The other two pieces of dark marble are in contrast extensively worked by the human hand, turning them with effort, technique, intelligence and creativity into an artificial form which is then entrusted with the value of an image. Some small inserts of white dots and a title have made the two columns fly in the poetic imagination. Let us recall again what Florensky said, these two pieces of black marble are two simple cylinders, like the shafts of a pair of columns, well-turned, polished, finished with rasp, brushes and waxed cloth, worked with slow gestures and caresses. They have a dark surface, as black as night, that artfully covers the material and lightens its weight; letting its nature as stone disappear under the veil of metaphor.

In this connection Fabro declared: “If stone becomes a flower, we don’t consider it to be stone, or a flower. It is something else: sculpture.” An expressive and poetic quality that is the value added to the material by the artist’s intelligence and imagination. In fact it can be noted that the face at the base of each of the shafts presents a series of circular grooves that serve to make that column look like a rolled-up sheet of paper, as if it were a poster. If the column were to be rolled along the ground, the sheet looks as if it might be laid out flat. The surface of the marble is dotted with small white marks, which immediately call to mind a starry sky. So that rolled-up sheet of paper would be the mantle of the sky, a thin veil embroidered with distant stars. An image, that of the starry mantle, generated by poets who used to gaze at the night sky with the naked eye. The day, a shapeless block of stone, weighs on the two columns, which are the night. The two cylinders support the heavy boulder like a day that has not turned out well. “These works,” wrote Fabro, “are born from a way of observing the relations between cosmos and image, or between disorder and image. I am intrigued by the fact that the image of the cosmos is formless at first and acquires form only through knowledge. I have often called the state of mind produced by this everyday sensation “the day weighs on my night.” Speaking of day and night in sculpture, we cannot help but think of Michelangelo’s Sagrestia Nuova, where the great Renaissance sculptor carved the celebrated Medici tombs. It was the artist’s intention for two of the sculptures in that chapel to represent Day and Night, enriching the tomb of Giuliano de’ Medici with thoughts of sleep and dream, of the passing of time and death. Let’s say that the three titles and the works form a sort of rebus, a text composed of images and words. There is something pre-Socratic in these three works. Something primordial. The artistic act that stems from the desire to enrich the world with beauty, in order to give a meaning to life and death, to go on contemplating the cosmos, the starry sky at night even when the day weighs heavy on our heads like a boulder. Against death by discordance or regression, as Fabro liked to put it.

 

Thus some of his declarations start to run through the mind again. The echoes of his intelligence, his sensibility and morality, his irony and lyrical bent, of which we feel the loss today.

May his fruitful thoughts accompany visitors to the exhibition once again, still heard by them today, especially the young, be they artists or not.

“My certainty: my feeling for my action. A new logic that should be particular and provide the means for development of the human spirit in the world. Discovering the order of things, determining not their essences, for the purposes of an inert contemplation, but their useful secondary properties, their modes of action, inferring the causes from the effects that make themselves felt. Sharpening observation and reflection and shaping them to serve this purpose. Honing the tools of the spirit and extending the power of the hand by their means into new instruments; getting your body to reach out into all the things of the world, as your own obedient limbs; imitating nature, but in order to transform it to fit in with human ideas. Analyzing it instead of making it abstract. Substituting for inventive chance the method suited to fruitful reformative invention.

Taking on this boundless enterprise.

Making this infinity, in which humanity will not get lost, nor wander around in vain. Choosing this herculean path of virtuous labor, leaving the easy, seductive, flowery path, without the fruit of works, of edifying contemplation, of the outlets at altitudes good only for those who like to leap into nothingness.”

 

Luciano Fabro, Parole e pensieri di Francesco Bacone, 1963

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