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29.10.2025 - 31.01.2026

MILANO, CORSO MONFORTE 23

COMUNICATO STAMPA 

Paesaggi per tempi esausti

di Sergio Risaliti

Il nostro tempo, per la sua situazione generale, non è favorevole all’arte. 

G.W.F. Hegel

Entrati nella sala centrale della galleria Stein di Milano troviamo esposte una serie di opere di Paolo Canevari (Roma, 1963). Non è la prima volta che l’artista romano presenta i suoi lavori in questo ambiente connotato da una eleganza antica. Lo spazio è di una certa vastità, generata vuoi dall’altezza del soffitto vuoi dalle ampie finestre che si aprono su un giardino romantico, lasciando penetrare la luce del giorno al suo interno. L’artista ha concepito un allestimento site-specific utilizzando lavori creati negli ultimi anni assieme a qualcosa di nuovo che è stato elaborato per l’occasione. Si tratta di dipinti e sculture elaborati utilizzando materiali industriali, derivati dalla chimica e dal petrolio, elementi in legno e oro, carta. Le opere a parete sono posizionate in continuità con le grandi finestre creando qualcosa che è simile a un orizzonte. I "dipinti" su carta sono stati realizzati versando olio esausto sulla superficie, poi arricchiti con cornici antiche dorate e molto lavorate. Canevari le ha cercate presso antiquari, scegliendole per la qualità del loro intaglio, le grazie, i ghirigori, come ad opporre la nobiltà dell’orpello decorativo alla prosaica paura del fluido. Eppure le cornici, in questo caso specifico, non sono accessori ornamentali. Scrive Kant a proposito delle cornici: «Anche ciò che chiamiamo ornamenti (parerga), vale a dire ciò che appartiene non intimamente, al modo di parte costitutiva, all’intera rappresentazione dell’oggetto, ma solo estrinsecamente, al modo di aggiunta, e aumenta il compiacimento del gusto, lo fa però solo in virtù della sua forma, come le incorniciature dei quadri, o i drappeggi nelle statue, o i colonnati intorno ai palazzi. Ma, se l’ornamento non consiste esso stesso nella bella forma e, come le cornici dorate, è aggiunto semplicemente per raccomandare con la sua attrattiva il quadro all’approvazione, allora si chiama decorazione, e pregiudica la schietta bellezza». In questo caso le cornici che inquadrano i dipinti funzionano come finestre aperte su lontani paesaggi. Incorniciano anche il senso precipuo delle immagini racchiuse all’interno del riquadro, che ci si rivelano in guisa di paesaggi. Avvicinandosi ai quadri notiamo che non sono dipinti in modo tradizionale e che sono tutti quanti dello stesso colore scuro, oleoso, privi di dettagli naturalistici, se non le sagome corrispondenti in senso astratto, minimale, a colline, e basse montagne dalle curve sinuose. 

 

Questi paesaggi sono stati generati superando la tradizionale pratica pittorica. Canevari ha eliminato pennelli, cavalletto, colori ad olio, e non ha lavorato en plein air. Non esiste bozzetto di partenza o disegno preparatorio. L’opera è figlia di un gesto, di un'azione e il medium è di tutt’altra specie. L’artista ha versato dell’olio esausto sul supporto cartaceo. Un olio prodotto dagli oli residui del motore, molto nocivo per la salute e l’ambiente e che deve essere smaltito secondo precise regole e normative in luoghi precipui e con idonee accortezze. Questo elemento oleoso, liquido, vischioso, ha lavorato praticamente da solo, impregnando la cellulosa che lo ha assorbito, per poi espandersi sulla superficie cartacea. Per reazione chimica una parte del liquido si è separata dall’altra rilasciando quella più oleosa che ha macchiato di un altro tono la carta. La materia viscosa derivata del petrolio si differenzia dall’altra per il colore nero. Canevari ha accompagnato con delicatezza questo lavorio dell’olio esausto, avendo cura del processo di sublimazione del liquido, facendo sì che potesse affiorare un’immagine, quella che ricercava: un paesaggio. Canevari scrive: «Il significato di queste opere si fonda sull’incontro tra due materiali: la carta e l’olio esausto di automobile. La carta, materia antica e umile, è alle radici della creatività umana: supporto della parola, del disegno, della memoria. L’olio esausto, residuo della civiltà industriale, rappresenta invece la nostra condizione contemporanea: la testimonianza di un mondo inquinato non solo nel corpo, ma anche nella mente. Imbevendo di olio motore la carta, lascio che la materia reagisca, si trasformi, assorba e muti forma per osmosi». Così nascono profili e sfumature che evocano paesaggi naturali. Dunque l’artista ha un progetto ben in testa a priori, ricostruire e ridefinire un genere, il paesaggio, piuttosto che reiterare una pratica tradizionale. Compiendo questo esercizio sa bene che modo, tecnica, materiale contribuiscono a elaborare la fine di una civiltà linguistica per rigenerare qualcosa di nuovo dalla cenere del passato. Canevari scava nella tradizione, in quella civiltà dell’arte che ha perduto di senso con la crisi della tradizione figurativa e della pittura da cavalletto, senza cadere in ripetizioni di maniera, in citazioni e nostalgiche evocazioni di generi e modelli trapassati. Ci affidiamo ancora ai pensieri dell’artista per meglio precisare l’argomentazione: «Il paesaggio, nella mia visione, è un luogo della coscienza, un’eco della pittura. La pittura, per me, rimane una presenza costante. Anche nei miei video, nei disegni, nelle installazioni e nelle performance permane un impostazione pittorica. Mi sono formato come pittore e credo che il quadro rappresenti un’idea bellissima, affascinante e sorprendentemente contemporanea. I miei lavori sono, in fondo, altri modi di dipingere, dove la pittura accademica e tradizionale è assente ma continua a esistere nella sua eredità. Dipingere con l’olio esausto su carta è per me un modo di riflettere sulla pittura come linguaggio, sulla sua capacità di trasformarsi e sopravvivere al tempo e ai suoi mezzi. In fondo, si definisce spesso la tecnica come “olio su tela”: nel mio caso, l’atto del dipingere rimane, ma cambia la lettura attraverso il materiale. Il quadro non è realizzato con l’olio da pittura, bensì con olio esausto, un rifiuto industriale e altamente inquinante, che diventa metafora di una bellezza possibile anche nella degradazione, di una rinascita poetica dentro i resti della civiltà contemporanea. Il nero è materia oscura in cui il gesto poetico dell’arte porta luce». Il lato nocivo, degenerativo della tecnologia con le sue chimiche ed energie negative e distruttive, si converte in qualcosa di positivo grazie alla sublimazione poetica dell’atto artistico. Il nero è adesso generativo, un olio spirituale che mette in moto atti conoscitivi, immaginazioni, reminiscenze; materia esausta che ora dà vita a forme visive inedite infondendo la luce dell’arte in qualcosa che appartiene al patrimonio figurativo passato. Colore nero che si fa luce, dunque, ma anche dimensione, un’energia del pittorico che accompagna la storia dell’arte da Caravaggio a Malevič, da Richard Serra a Jannis Kounellis. 

Sul pavimento della sala Canevari ha posizionato una scultura, una “palla” di grandi dimensioni realizzata usando pneumatici di auto, ritagliati e incollati sull’elemento sferico in legno che costituisce la base costruttiva dell’oggetto. La copertura, lo pneumatico, si fa pelle della sfera, diviene il suo carapace. La sfera inoltre definisce un punto limite all’interno della sala, è soglia, affaccio rispetto ai dipinti appesi alle pareti. Canevari eccita la nostra fantasia utilizzando materiali tecnologici appartenenti al mondo industriale delle auto. Questi oggetti subiscono una metamorfosi funzionale. Da essere stati a servizio della mobilità, le auto, i panzer, i camion, i carri armati, si trasformano in altro. Adesso si sono trasformati in oggetti poetici grazie a gesti creativi molto elementari, gesti che smuovono la conoscenza e le sue potenzialità immaginative, quelle connessioni tra pensieri e ricordi, tra immagini e situazioni. Di nuovo diamo spazio alle riflessioni di Canevari: «L'uso di materiali poveri e industriali, come le camere d’aria o l’olio esausto, non è mai una scelta puramente estetica, ma etica. Sono materiali che portano con sé una storia, un uso, una memoria. Mi interessa ristabilire attraverso di essi una possibilità poetica».

 

Viene, allora, da domandarsi che cosa sia mai quell'oggetto sferico rotolato in mezzo alla sala. Sarà un bolo rigettato da un animale preistorico? Un mondo in miniatura? Forse un giocattolo scivolato via dalle mani di un bambino? Un meteorite? Un proiettile inesploso, una mina di enorme potenza? O semplicemente è tutte queste cose assieme? E qual è la relazione tra il materiale di cui è fatto quello sferoide, così compatto, sordo, opaco, e quello delle immagini alle sue spalle? Il materiale è sempre di natura industriale, che sia pneumatico oppure olio esausto, ed è sempre collegato al mondo dei motori, dell’automobile. Mentre guardiamo quella sfera e quei dipinti, cerchiamo di darci delle risposte, e più guardiamo più comprendiamo che siamo noi l’oggetto di interesse dell’artista, che sono le nostre operazioni cognitive, immaginative ed emotive al centro del suo interesse. L’artista, dunque, ha costruito una serie di opere in materiali e formati diversi che riproducono immagini a noi familiari o che fanno parte del nostro background culturale, riformulando queste immagini - un paesaggio, un giocattolo - in modo inedito, non solo dal punto di vista figurativo, quanto piuttosto per il materiale che è stato utilizzato per svelare altre immagini a partire da quelle conosciute. Canevari scrive: «Cerco, come artista, di lasciare una traccia nella mente di chi osserva, di spingerlo a uno stato di pensiero attivo, in contrasto con la passività indotta dalla maggior parte delle immagini che oggi ci assediano. Il mio lavoro nasce dal desiderio di evocare sentimenti, sensazioni personali e uniche che ognuno di noi conserva nella propria memoria. Cerco di restituire all’arte il suo potere originario di far pensare, di risvegliare un’attenzione profonda e non distratta, lontana dalla spettacolarità e dalle forme di intrattenimento. Credo nell’arte come atto critico: un modo per resistere al conformismo visivo e mentale del nostro tempo». Osserviamo con maggior attenzione i paesaggi. Canevari ripropone un genere fattosi obsoleto con il successo della fotografia e del cinema o con le prospettive aeree e satellitari, quello della pittura di paesaggio romantica. L’industrializzazione ci ha separato in modo irrimediabile da madre natura. L’Impressionismo è stata forse l’ultima possibilità di praticare un ritratto verosimile, emotivo, interiorizzato del paesaggio. Ne è prova quella certa "malinconia" che pervade i paesaggi di Monet e Pissarro. Erano i loro ritratti di un modo già perduto. Ma i loro erano tempi moderni e di avanguardia, con davanti infinite possibilità di creare un nuovo linguaggio, di creare nuovi mondi artistici, nuove forme e stili. 

 

La cornice che inquadra questi presunti “paesaggi” romantici confermerebbe il genere giocando con il ricordo che abbiamo di simili “dipinti” ottocenteschi, esposti in qualche museo o galleria di arte antica. Quindi dobbiamo ammettere che anche la cornice ha un suo valore gnoseologico in quanto non ha solo la funzione di incorniciare l’opera o proteggerla. Non è un escamotage decorativo per sedurre, per attrarre il visitatore. Con essa, l’artista vuole circondare e circoscrive l’immagine: circondare di una certa aura l’immagine che si è generata dallo sversamento dell’olio esausto; circonfondere di aura l’immagine significa anche confondere l’immagine con l’aura, cioè velarla e illuminarla a un tempo, cioè s-velarla. La cornice inoltre racchiude e circoscrive l’immagine: la circoscrive come fa una finestra con il paesaggio. Restituire aura all’immagine significa poi dotarla di una qualche distanza presentandola come il sogno o la rimembranza di qualcosa di perduto, tramontato, obliato. Walter Benjamin descriveva in questi termini l’aura: «L'aura è il manifestarsi di una lontananza, per quanto vicina essa sia. Anche le parole hanno la loro aura: Kraus l'ha descritta con particolare precisione - Quanto più da vicino si guarda una parola, tanto più lontano essa guarda a sua volta-. Nel mondo c'è tanta aura quanto vi rimane di sogno».

 

La relazione tra cornice e immagine, così come quella tra la palla al centro e i dipinti alle pareti funziona su questo doppio movimento di vicino e lontano, di distanza e prossimità, di svelamento e nascondimento. La sfera, infatti, si frappone tra noi e l’immagine, crea un'ulteriore distanza, occupando lo spazio ma lasciando spazio alla rivelazione dei paesaggi all’orizzonte. I visitatori sono l’elemento necessario per attuare un gioco di sguardi tra persone, cose e immagini. Le cornici, di stile antico, si danno come finestre aperte su un fuori: l’aperto che ci si para davanti in forma di sogno, come esperienza dell’immaginazione e del ricordo. Siamo, allora, contemplatori che fuori all'aperto si danno la possibilità di riviverne l’emozione, ribaltando il negativo in positivo, la fine in nuovo inizio. Siamo come certi personaggi della pittura ottocentesca - ad esempio quella di Caspar David Friedrich - ritratti in mezzo a una vasta pianura circondata da alte cime innevate o isolati in vetta a una montagna a ridosso di un precipizio.

 

Torniamo a osservare l’oggetto sferico che, pur avendo tra le sue massime proprietà quella di muoversi rotolando, sta invece fermo. Intorno a questa sfera si svolge, come in un panorama panottico, una cortina di seducenti paesaggi nobilmente incorniciati. Riconosciamo morbide colline. Cime tempestose. Montagne su cui aleggiano nubi minacciose. Abitiamo una dimensione diversa dal solito. È quella dominata dal silenzio di cui si circonda l’opera dotata di aura. Un silenzio che partecipa alla fioritura di un’immagine che è stata generata nel tempo ormai esausto della creazione artistica, nel tramonto della nostra immaginazione poetica: «La ricerca del silenzio come spazio interiore da ritrovare nell’opera è per me una scelta consapevole e politica. Viviamo immersi in un rumore continuo, in una sovrapproduzione di immagini, parole, opinioni. Il silenzio diventa una forma di resistenza: un luogo di ascolto, un tempo necessario per il pensiero; per ritrovare una dimensione umana del fare, priva di tecnicismi e di artificio, che possa riflettere una tensione verso l’essenziale. Ho sempre sostenuto un’etica fondata sulla semplicità dei mezzi, sulla possibilità di creare con poco. La mia è una pratica che rifiuta l’eccesso e il monumentalismo. Non credo nelle produzioni ricche o nelle opere che rappresentano un’economia forte. L’arte deve poter esistere senza il potere». 

 

Per concludere, queste opere devono essere usate come delle zattere di sopravvivenza etica ed estetica in un tempo che non è favorevole all’arte. Possiamo così aggrapparci ad ognuna di queste opere per non essere trascinati passivamente nel corso violento della Storia. Per avere ancora una volta a portata di mano la meraviglia di un’alba nascente su un paesaggio che vive sospeso per noi tra distanza e vicinanza. Come un oggetto di desiderio che alimenti assieme alla sua rinascita la struggente malinconia generata per un bene prezioso che abbiamo già perduto da sempre.

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